ADIT incontra il professor Roberto Verna

Prof. Roberto Verna

ADIT incontra. Vaccini e cure, il punto sull’emergenza sanitaria
Intervista di Gabriella Lepre al prof. Roberto Verna:
“Dosare gli anticorpi invece dei tamponi a tappeto per una mappatura precisa del Covid in Italia”

Dopo il webinar sulla pandemia con i virologi Andrea Crisanti e Lars Dölken, ADIT continua il dibattito sul tema con un’intervista al prof. Roberto Verna, ordinario di Patologia clinica alla Sapienza di Roma, oltre che presidente della World association of societies of pathology and laboratory medicine e rappresentante all’OMS dell’Associazione, presidente della World pathology foundation e della Accademia per la salute e la ricerca clinica

Professor Verna, facciamo innanzitutto il punto sui vaccini

“E’ singolare a mio parere come tra un vaccino e l’altro ci siano stati tempi e procedure diverse per l’approvazione. EMA è stata molto sollecitata per il vaccino Pfizer, meno per il Moderna, enormemente per AstraZeneca, molto poco per Johnson ed altri, e per nulla per Sputnik. Può essere dipeso dal costo?

Oxford/AstraZeneca 1,78 euro per dose; Curevac 10; Sanofi/GSK 7; J&J 6,94; Pfizer/Biontech 12; Moderna 14,7.

Roma avrebbe prenotato 40,38 milioni di dosi da Astrazeneca e Sanofi/Gsk per un riparto di spesa, rispettivamente, di 71 e 305 milioni di euro. Per Curevac la spesa è di 300 milioni di euro per 30 milioni di dosi e Pfizer/Biontech con 26 milioni di dosi raggiunge la cifra di 312 milioni di euro. Poi c’è Moderna che in Italia dispenserà una quota di soli 10 milioni di dosi per un totale di 147 milioni di euro di riparto di spesa. Infine Johnson&Johnson da cui l’Italia ha attinto la quota maggiore (53,84 milioni di dosi) per una relativa spesa di 373 milioni di euro. Il conto complessivo per le 202 milioni di dosi è di circa 1,4 miliardi di euro.
Ma in Italia siamo una cinquantina di milioni e se sommiamo tutte le commesse arriviamo a più di 150 milioni di dosi. Come mai?
Veniamo al problema che in questi giorni sta preoccupando l’opinione pubblica: AstraZeneca. Il vaccino è stato sperimentato e approvato per un’età compresa tra 18 e 55 anni. D’un tratto visto che altri vaccini mancavano (o forse erano più costosi o perché AstraZeneca ha ricevuto investimenti della Regione Lazio in quanto prodotto anche da IRBM-Pomezia) è stata elevata l’età fino a 65 anni e poi oltre. Negli stessi giorni si stava dibattendo molto sul possibile utilizzo di Sputnik, che Lancet e l’Istituto Spallanzani declamano come ottimo. Autorevoli voci si sono affrettare a spiegare che la Russia non aveva fatto richiesta all’EMA e quindi, senza la richiesta ufficiale, non ci si poteva basare sui dati che pervenivano dal mondo scientifico. Per carità, il Regolatorio dispone un’attenta verifica delle sperimentazioni prima di concedere il benestare all’uso terapeutico. Peccato che ciò non sia stato ritenuto valido per AstraZeneca, per la quale è bastato un parere del Consiglio Superiore di Sanità per allargare l’età (senza alcuna sperimentazione ufficiale).
Il Regolatorio è stato istituito proprio per questo ma il nostro Ministero non lo segue. Ora le possibilità sono tre: o il nostro Ministro sa cose che noi non sappiamo o ignora la procedura per la ricerca clinica o è avventato. Il Ministero della Salute deve chiarire molte cose sul protocollo anti-pandemia e sulla gestione tardiva dell’emergenza e delle successive ondate. Ma al momento pare trincerarsi dietro i pareri del Comitato Tecnico Scientifico”.

E’ pur vero professore, che anche altri Paesi come la Germania usano Astrazeneca per gli anziani. Ora attendiamo con ansia le decisioni della Food and Drug Administration americana in merito ad Astrazeneca… ma ci parli del nodo degli anticorpi eventualmente presenti nella popolazione

“Nel mese di novembre 2020, il collega Antonino Mazzone, primario del servizio di medicina interna a Legnano, viene infettato dal virus. Ricoverato nel suo stesso reparto, guarisce ed è in ottima forma per fortuna. Sa di aver prodotto anticorpi e propone di poter circolare liberamente perché non potrà più infettarsi, almeno per un certo tempo. Suggerisce, inoltre, di non vaccinare le persone guarite dal Covid, perché la loro carica anticorpale potrebbe rivelarsi pericolosa. Mi propone di scrivere insieme al collega Nicola Mumoli una lettera al New England Journal of Medicine su questo tema. La lettera giace per un mese e mezzo senza che venga data una risposta poi viene rigettata per mancanza di spazio (30 righe). Naturalmente, nel frattempo si è acceso il dibattito sull’opportunità o meno di vaccinare chi ha avuto la malattia. Altre autorevoli fonti mi rispondono: ma è come un allenamento, aumentiamo gli anticorpi.
Ora si vede che il fenomeno ADE (antibody dependent enhancement) può determinare danni seri. Ma nessuno del Comitato Tecnico Scientifico ci aveva pensato. Inoltre, quanto costerebbe fare il dosaggio degli anticorpi a tutta la popolazione? Non abbiamo i soldi, la risposta. Eppure ma si eseguono tamponi a rotta di collo con il pericolo di testare una persona come negativa, che il giorno dopo si infetta senza saperlo. Chiunque di noi conosce persone falsamente positive o falsamente negative, dipende dal metodo usato, da come viene fatto il prelievo e ora da una recente pubblicazione si evince che i test danno risposte diverse addirittura nell’ambito di una medesima giornata.
Un dosaggio di anticorpi (IgM IgG IgA) privatamente viene a costare circa 20 euro ma, se condotto a livello nazionale, costerebbe decisamente meno. Ci darebbe inoltre una mappatura precisa delle zone colpite e del numero dei positivi. Certo, chi ha gli anticorpi ha avuto contatti col virus e potrebbe essere ancora infettante; ebbene, a costoro va fatto anche un tampone molecolare. Ma quanto è costato fare tamponi a centinaia di migliaia di persone senza avere una mappatura della reale dimensione del problema? E con una spesa enorme?”.

Ravvisa problematiche dovute alla composizione del CTS?

“Per fortuna il Presidente Draghi ne ha fatto modificare la composizione, sostituendo una quantità di membri che erano più esperti di gestione, leggi e decreti che non scienziati, come rilevato anche dalla prestigiosa rivista Nature, con 12 esperti certamente più vicini alla questione dal punto di vista scientifico. Purtroppo, paghiamo però ancora errori come ad esempio quello della mancata rilevazione degli anticorpi. Comunque, almeno questo problema sembrerebbe risolto, ma mi sembra molto strano che il nuovo CTS non abbia nulla a che ridire sulla vaccinazione ad opera dei farmacisti”.

Ci spieghi meglio

“Opportunamente formati e previa acquisizione del consenso, questa categoria avrà la possibilità di vaccinare nelle farmacie, escludendo la supervisione dei medici. Tale possibilità è ammessa dopo specifici accordi con le organizzazioni sindacali rappresentative delle farmacie, sentita il competente ordine professionale. Accordi ai quali è affidata, altresì, la disciplina inerente modalità di presentazione del consenso informata. Dovranno poi essere disciplinati anche gli aspetti relativi ai requisiti minimi strutturali dei locali per la somministrazione dei vaccini nonché le opportune misure per garantire la sicurezza degli assistiti.
Questo è il testo riportato dal “Quotidiano Sanità”. Su tale tema ho avuto modo di pubblicare un editoriale sulla rivista Healthcare

Vaccines in Pharmacies? Verna, R. Healthcare 2021, 9 269.

nel quale ha evidenziato alcune criticità, quando ancora si parlava della possibilità di vaccinare nelle farmacie ma solo da parte di medici.
Ora la situazione si complica, perché la vaccinazione, come tutte le somministrazioni iniettive, è un atto medico e non si può con un decreto modificare quella che è una professionalità acquisita per legge ma dopo specifici corsi di studi. Il medico può prescrivere le cure, il farmacista, su indicazione del medico, può dispensare farmaci. C’è una differenza sostanziale. Le farmacie sono convenzionate con il Servizio Sanitario Nazionale solo per dispensare farmaci su ricetta medica; mentre il medico di famiglia ha un contratto con il SSN con tanto di numero e timbro, il farmacista – dipendente della farmacia privata – non è legato al Servizio sanitario.
La farmacia in sé può essere paragonata a un’attività commerciale: basta che ci sia un direttore farmacista; essa è soggetta solo in parte a disposizioni normative in termini di spazi, personale, strumentazione, con il proprietario fa il bello e il cattivo tempo con i dipendenti che sceglie personalmente e senza concorso, senza valutazioni comparative né particolari qualifiche professionali. Non è un caso che i dipendenti delle farmacie abbiano un contratto scaduto dal 2009!
Perciò, l’idea di far eseguire i vaccini in farmacia da parte di medici, può essere sensata, ma la vaccinazione da parte dei farmacisti è una forzatura inaccettabile. Cosa significa, poi, opportunamente formati e previa acquisizione del consenso? Il consenso informato è un atto medico anch’esso e quella che viene definita “opportuna formazione” è forse un tutorial di pochi minuti inviato sugli smartphone? Il problema non è solo infilare correttamente un ago in un braccio, ma sapersi districare in caso di un qualsiasi problema. Vi immaginate cosa succederebbe in caso di svenimento, di reazione di panico, di reazione allergica seria, per non parlare di eventi gravi come arresto cardiaco? Però il titolare della farmacia potrebbe pretendere la prestazione da parte del dipendente minacciandolo di licenziamento, anche se il dipendente non avrebbe alcuna copertura assicurativa né legale, che eventualmente dovrebbe pagarsi da solo.
Tutto questo nella proposta del governo non sembra esserci. E, poi, in questo momento nel quale la gente ha paura di vaccinarsi per timore delle possibili reazioni avverse, era opportuna una proposta del genere? Certo, alcune grandi farmacie potrebbero dotarsi di strutture di emergenza e di un’ambulanza pronta a ogni eventualità; ma la maggior parte, specie nei paesini e quelle rurali, non potrebbero soddisfare nessuno dei criteri di sicurezza necessari. E invece la proposta nasce dalla presunta disponibilità di tali farmacie per coprire tutto il territorio nazionale. Insomma, tutto ciò sembra volto soprattutto a implementare gli introiti delle grandi farmacie. Sono stati destinati 50 milioni di euro per questa iniziativa e si pensa ad aumentarli, ma con questa cifra si potrebbe fare quasi un ospedale”.

Veniamo ora alle cure: il futuro è negli anticorpi monoclonali?

“Vedremo. In Italia, sono iniziate le somministrazioni degli anticorpi monoclonali anti Covid-19. L’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma ha annunciato l’avvio del trattamento a persone in fase iniziale della malattia, che non necessitano di ricovero ospedaliero e in particolari condizioni di aumentato rischio di peggioramento clinico.
Gli anticorpi monoclonali sono molecole ad uso farmacologico, impiegate da tempo nella cura dei tumori e di malattie reumatiche. Di recente anche contro alcune malattie infettive, come ebola e ora contro Sars-CoV-2. Il loro meccanismo d’azione prevede il blocco della proteina spike del virus che ha la funzione di infettare le cellule dell’ospite e bloccando la spike si evita la malattia da Sars-CoV-Aifa, al momento, ha approvato due anticorpi monoclonali: il cocktail della Regeneron e il farmaco di Eli Lilly, ma ha previsto limitazioni, in linea con quelle del Canada  e dell’FDA negli Stati Uniti.
Il Regen-Cov, usato anche per l’ex Presidente USA Donald Trump, è prodotto appunto dall’azienda farmaceutica americana Regeneron e si basa sugli anticorpi casirivimab e imdevimab. Il primo è stato isolato in un paziente di Singapore, mentre il secondo è stato ottenuto in laboratorio, inserendo la proteina spike del coronavirus nell’organismo di un topo modificato geneticamente. Dai risultati della ricerca, Regen-Cov sarebbe in grado di ridurre la carica virale, in modo significativo e del 50% il rischio di contrarre l’infezione.
Il risultato della sperimentazione ha aperto alla possibilità di usare questo cocktail come “vaccino passivo” in attesa di una maggiore disponibilità di dosi di vaccino anti- Covid.
Il Bamlanivimab, prodotto da Eli Lilly è l’anticorpo monoclonale autorizzato per l’uso di emergenza come trattamento per i pazienti ad alto rischio, con Covid 19 da lieve a moderato. Gli studi mostrano una efficacia del 72% nel ridurre il rischio di ospedalizzazione per i pazienti con sintomatologia moderata. Bamlanivimab ed etesevimab è la combinazione di anticorpi di Eli Lilly che gli studi indicano essere in grado di ridurre il rischio di ricovero e morte per Covid, del 70%.
Anticorpi monoclonali, sono inoltre in fase di studio avanzato da AstraZeneca che ha realizzato l’AZD7442, una combinazione a lunga durata d’azione (Long acting antiBody, LAAB), che potrebbe essere utilizzato come intervento di prevenzione in comunità, ospedali, case di riposo, per il vantaggio di produrre anticorpi immediati. Anche Toscana Life Sciences ha realizzato il Monoclonal antibody discovery lab a Siena, Direttore, il professor Rino Rappuoli. I ricercatori hanno selezionato gli anticorpi di persone guarite dalla Covid-19 e isolato l’anticorpo “più potente” sulla base del quale è stato creato il farmaco”.